Bologna, 20 aprile 2007
Come a chiunque abbia occasione di sfogliare gli annali della Fondazione Redenti, anche a me non pare impertinente pensare che il premio Redenti sia, per un giurista, l’equivalente del premio Oscar “alla carriera” per un professionista dello spettacolo cinematografico.
Per questo, mi sento un po’ come l’outsider gratificato dalla consegna della più celebre statuetta della contemporaneità. La sua premiazione non poteva essere ragionevolmente prevista. Come la mia. Nel suo caso, come nel mio, la giuria ha deciso in base a criteri di valutazione palesemente eccentrici. Infatti, l’edizione del 2007 del premio Redenti rompe la tradizione che voleva una certa affinità tra l’itinerario scientifico-culturale del premiato e quello del giurista di cui il premio reca il nome. Anche ammettendo – con molta benevolenza – che l’affinità ci sia, stavolta essa consiste in ciò: il premiato ha compiuto un percorso in senso curiosamente inverso rispetto a quello del giurista per onorare la memoria del quale la Fondazione esiste ed agisce.
Vero è che nell’ormai lontano 1958 mi laureai con una tesi sulla successione a titolo particolare nel processo e che la discussi non solo con Tito Carnacini, ma anche con Enrico Redenti. Vero è che nel 1961 una commissione istituita dall’Università di Genova per l’assegnazione del premio De Marini bandito a cadenza biennale per la migliore tesi in diritto processuale civile – della commissione faceva parte lo stesso Redenti con Salvatore Satta e Giovanni Conso – mi insignì di un’artistica medaglia d’oro sulla quale è impresso un distico dantesco gonfio, se preso alla lettera, di oscure minacce: “S’arma e non parla”. Viceversa, come tutti sanno, coi processualcivilisti non avrei mai duellato, perché le questioni che più li affaticano non sarebbero state al centro delle mie ricerche se non occasionalmente. Nel 1960 avevo già eletto come disciplina della mia vita il diritto del lavoro. Senza, però, la necessità di cambiare città. E nemmeno la strada: la nuova scelta disciplinare mi portava sempre in via Guerrazzi 1. L’ambiente della mia formazione, quindi, era il medesimo. Ed anche il maestro. Eppure, Carnacini non era un giurista del lavoro. Col diritto del lavoro, come una volta scrisse di sé col bon ton che lo distingueva, gli “era accaduto di prendere contatto non tamquam transfuga, sed tamquam explorator”.
Tuttavia, il fugace tocco autobiografico è più intensamente evocativo di quanto non possa apparire a prima vista. Soltanto i più distratti o sprovveduti, infatti, possono accontentarsi di leggervi che Carnacini sapeva di non possedere le motivazioni che invogliarono a diventare giuristi del lavoro parecchi neo-laureati del sesto o del settimo decennio del ‘900. Tutti gli altri, invece, si soffermano sul come, con quale atteggiamento mentale e con quale tipo di interessi, Carnacini sia entrato per sua esplicita ammissione in una provincia del sapere molto distante da quella in cui signoreggiava. Così facendo, però, i meno frettolosi o superficiali sono sospinti a porsi un inquietante interrogativo. Si domandano cioè se non corrisponda ad un disegno intelligente di cui non è dato conoscere in anticipo la trama il fatto che anche il maestro di Carnacini non fosse un giurista del lavoro e, ciononostante, nella prima metà del ‘900, avesse investigato il medesimo territorio sul quale, nella seconda metà del secolo, avrebbe sostato Carnacini e con identiche intenzioni.
E’ una coincidenza su cui vale la pena riflettere. Anzitutto, perché Carnacini – il quale cominciò ad impartire nell’ateneo di Bologna le sue lezioni di diritto del lavoro quando esso recava ancora visibili le cicatrici delle profonde ferite inferte dal fascismo – restituì continuità ai discorsi che una minoranza di giuristi liberal-democratici fu costretta dagli avvenimenti ad interrompere. Giuristi che, come Redenti, sono annoverati dalla moderna storiografia giuridica tra i padri putativi del diritto che dal lavoro ha preso nome e ragione. Vero è che la rivisitazione di quest’ultimo mediata dalla riscoperta delle radici culturali non inquinate dalle scorie di un imbarazzante passato corrispondeva ad una tendenza condivisa dai più autorevoli giuristi non compromessi col regime fascista come Francesco Santoro Passarelli o Luigi Mengoni. Nel caso di Carnacini, però, c’era anche un messaggio da attualizzare: quello che, senza volerlo né saperlo, gli aveva trasmesso Redenti di cui era l’allievo prediletto.
La seconda ragione per cui la suggestiva assonanza di esperienze culturali si arricchisce di significati che vanno oltre la mera casualità è che l’impianto culturale del diritto del lavoro attuale conserva nitide tracce dell’esplorazione compiuta da entrambi i processualcivilisti. Da Carnacini – perché le sue virtù di maestro rigoroso e severo gli consentirono di selezionare, assecondare e sostenere i talenti atti a fondare una scuola di pensiero con rari riscontri nel paese: Federico Mancini e Giorgio Ghezzi ne sono stati gli esponenti più prestigiosi – e da Redenti – quando scoprì quella che Francesco Carnelutti chiamò “una plaga di terra ancora vergine”. Anche se, per evocare l’idea che il luogo non era segnalato sulle mappe della scienza giuridica dell’epoca, si sarebbe potuto ingentilire l’immagine parlando, come io preferirei, di un fazzoletto di terra avente le dimensioni di un’insula in flumine nata.
Ad ogni modo, tutto questo lirismo si giustifica perché e finché nessuno sospetta che sotto l’aspetto di una atipica fattispecie contrattuale, il contratto di lavoro salariato, si celasse il nucleo fondativo del diritto del ‘900 che, secondo il parere di un autorevole storico, costituisce “uno dei pochi indubbi esempi del progresso della cultura giuridica” contemporanea.
Dapprincipio, Redenti venne incuriosito dal dilettantismo di improvvisate giurie a base elettiva – i probiviri industriali istituti da una legge del 1893 sull’omologo, ma più fortunato modello d’Oltralpe – competenti a risolvere senza lungaggini procedurali e a basso costo le controversie di lavoro promosse da operai.
Naturalmente, non è dato sapere se la curiosità del ragazzo fosse spontanea. Ciò che conta però è che, pur essendo verosimilmente suscitata da Vincenzo Simoncelli che gli aveva suggerito di redigere la tesi di laurea su I magistrati del lavoro, si trasformerà in un impegno civile dopo l’incontro con una personalità come Giovanni Montemartini, carismatico protagonista dei vivaci dibattiti promossi dalla leggendaria Società Umanitaria di Milano sulle politiche sociali più adatte ad un paese arretrato. Di lì a poco, infatti, il Consiglio superiore del lavoro su proposta dell’economista lombardo – influente regista del medesimo Consiglio e primo direttore dell’Ufficio del lavoro istituito nel 1902 per iniziativa del governo Zanardelli – gli conferisce sul finire del 1903 l’incarico di elaborare un Massimario delle sentenze probivirali che l’Ufficio del lavoro andava raccogliendo. La delibera spiega perché: le istituzioni più rappresentative del riformismo dell’età vogliono poter disporre della chiave di lettura di un’esperienza, molto avversata e poco monitorata, da cui si propongono di ricavare (sono parole di Montemartini) “elementi per lo sviluppo di una proficua opera legislativa in materia di contratto di lavoro”.
“Massimario” è un termine del lessico degli addetti ad una particolare attività diretta a soddisfare il fabbisogno informativo del ceto giudiziario e forense. Poiché massimare le sentenze significa analizzarle allo scopo di dissotterrare e formulare (in termini a volte professorali a volte sciatti, ma sempre) con toni precettivi, il principio di diritto applicato dal giudice per decidere, anche se il decisore non lo ha espressamente richiamato, ogni massima è l’esito di un’operazione concettuale a rischio di scadere nella manipolazione, anche la più arbitraria. Pertanto, l’affidabilità di un repertorio di massime giurisprudenziali dipende non solo dall’acume, ma anche dall’onestà intellettuale del suo autore.
Possono sembrare pignolerie, e forse lo sono. Ma ho dovuto infliggerle, anche a me stesso, per sottolineare che il termine usato dal committente per classificare il prodotto richiesto a Redenti è riduttivo, viste le caratteristiche che avrà il prodotto finito.
Effettivamente, Redenti schedò le decisioni (alcune migliaia), in ciò aiutato dagli “egregi e benemeriti dirigenti dell’Ufficio del lavoro”. Con pazienza, umiltà e col trasparente scrupolo di non falsificare o tradire l’altrui pensiero. Distillò la cultura della prassi che esprimevano, condensandola in poco meno di mille massime. Con sapienza, anche se aveva appena ventidue anni, le riordinò in chiave sistematica e, nei limiti del possibile, le riannodò ai principi giuridici codificati. Per questo, consegnando al committente nel 1905 il suo Massimario, la cui Introduzione (ancorché, è presumibile, non richiesta) ha il respiro di una monografia, Redenti deve aver provato l’intima soddisfazione che dà un lavoro ben fatto. Ma non era affatto un comune massimario.
Di routine era la sua struttura esteriore, analoga a quella delle raccolte giurisprudenziali ordinate a guisa di commento di una legge. Il fatto è che la legge non c’è. Non c’è ancora e anzi non ci sarà mai. Nondimeno, il Massimario redentiano finisce per prefigurare il prototipo normativo del contratto di lavoro dipendente nella completezza degli istituti che lo compongono tuttora. Infatti, il Massimario è da considerarsi come un documento storico in senso proprio perché annuncia come ormai avvenuta nei fatti l’uscita dalla società pre-industriale e già cominciato l’avvento di un nuovo ordine sociale incentrato sul contratto di lavoro più aderente alle aspettative delle macro-strutture della produzione e del popolo degli uomini col colletto blu e le mani callose. E’ il contratto di lavoro a tempo indeterminato che, scrive Redenti, se “permette all’industriale di formare il proprio esercito permanente, disciplinarlo e abituarlo al lavoro così da poter contare su di una manodopera nota, abile e costante”, “reciprocamente permette all’operaio di poter contare sopra una posizione ben definita nell’oggi e che gli dà una tal quale certezza del domani”.
L’autore tuttavia si astiene dal pronunciarsi sull’opportunità politica di legiferare; e ciò per rispetto della distinzione dei ruoli. Giustamente, considera esaurito il suo con la predisposizione di “un quadro intelligibile delle convinzioni della comune coscienza giuridica di tutto il paese in merito al contratto di lavoro”. Una coscienza che si nutre dell’aequitas e dell’humanitas cui lo stesso Redenti si richiamerà con pacata mens nell’ora del commiato dall’insegnamento per dire che di quelle sue innate propensioni avevano fatto l’ancoraggio etico della sua intera esistenza. Una coscienza che egli vede rispecchiarsi nell’operato di quei singolari rabdomanti di Stato che erano i probiviri, ed io rivedo materializzarsi, con gli occhi della mia memoria di ex studente della Facoltà giuridica bolognese, nel canuto signore che, come lo ritrasse la penna lieve di Federico Mancini, “andava in giro con la lobbia, una sciarpa bianca, un bastone da passeggio col pomo d’avorio” e fumava sigarette di tabacco leggerissimo.
In effetti, il Massimario celebra l’elogio della “coscienza dei galantuomini”, come potevano intenderla i liberali di ispirazione democratica e repubblicana di cui l’Italia post-risorgimentale è sempre stata povera.
Peraltro, il Massimario redentiano non segnò soltanto il promettente avvio della realizzazione del programma di riordino e sistemazione del diritto vivente tracciato da Montemartini. Unitamente allo studio sulla contrattazione collettiva affidato a Giuseppe Messina dal Consiglio superiore del lavoro nel corso della stessa seduta in cui venne deliberato l’incarico a Redenti, il Massimario ha segnato altresì l’esordio di “un giurista empirico, forte nella sintesi”, come si esprimerà Severino Caprioli nella giornata di studi che nel 1994 l’Accademia del Lincei gli ha dedicato, “perché penetrante nell’analisi dell’esperienza”.
“In molti modi”, scrisse Redenti in occasione della commemorazione di Piero Calamandrei, “si può studiare il diritto”. “Scrutando le stelle oppure attingendo ai libri altrui”. Se, come è ovvio, l’astrologia giuridica è una stravaganza, nessun giurista può dubitare della necessità di consultare le fonti scritte. Tuttavia, è lo stesso Redenti ad ammonire: “guai a chi si costituisce prigioniero dei libri e crede che la scienza consista nel ridistillare a lume di lucerna concetti, definizioni, distinzioni e classificazioni”. Il diritto, insegna Redenti, va studiato “indagando, tra uomini e cose, la vita in cui il diritto è”, perché “per sua natura è materia empirica”.
Dunque, è toccato ad un galileiano precoce che partiva dai fatti, non dai dogmi; è toccato ad un giovane che non sapeva cosa avrebbe fatto da grande, è toccato a lui dissodare “con l’aratro e col sarchio”, come riconobbe Carnelutti, la piccola insula in flumine nata piuttosto che colonizzarla con l’arroganza venata di paternalismo tipica di una razza padrona. Infatti, Redenti non pretese di stabilirvi la sua ortodossia. Anzi, di fronte al nuovo che avanzava – le ciminiere che svettavano accanto ai campanili, un’organizzazione sindacale che canalizzava l’antagonismo di una classe sociale di emarginati ed un mercato del lavoro che Carnelutti non sapeva collocare nei propri apparati cognitivi se non paragonandolo con un tocco di folklore casalingo ai “mercati veneti di bestiame” – Redenti seppe farsi condizionare il meno possibile dai pregiudizi ideologici del suo tempo.
Se non vi spadroneggiò, nella “plaga di terreno ancora vergine”, neppure vi si sperse; e ciò perché si era abituato in fretta ad orientarsi con la stessa bussola che usava il grande giudice Holmes, secondo il quale la vita del diritto non è logica, è esperienza. Per la stessa ragione, ancora oggi Redenti ci appare come il meno spaesato dei pionieri suoi coetanei. Certamente meno, molto meno di quanto non mostrasse di sé Ludovico Barassi, benché fosse l’unico giurista della prima metà del Novecento a risiedere in maniera continuativa nel territorio delle relazioni di lavoro. Infatti, non smise mai di ragionare e comportarsi tamquam transfuga senza il gusto dell’investigazione. Per questo, come vado sostenendo da anni, il giusprivatista dell’Università Cattolica di Milano ha chiuso la sua dignitosa carriera senza rendersi conto di avere trascorso una vita non già nella periferia di un impero – quello del diritto civile codificato – bensì in un non-luogo, di cui bisognava trovare l’esatta collocazione nel sistema normativo.
Da parte sua, Redenti aveva tentato di far capire che il diritto del lavoro è il prodotto di un bricolage senza fine. Che il suo know-how è quanto di più anonimo si possa immaginare. Che senza condivisione popolare non ha futuro. Tutto inutile. L’ambiente era troppo immaturo. Forse, anche per questo se ne allontanò. Aveva intuito che innamorarsi del diritto del lavoro era non tanto l’errore di gioventù dei giuristi migliori quanto piuttosto la vocazione dei peggiori.